Due ex raìs sul banco degli imputati. Uno – l’unico democraticamente eletto dall’Egitto repubblicano– condannato ieri alla pena capitale. L’altro – l’ex dittatore –assolto e, nei fatti, riabilitato. È questa la sintesi delle vicende giudiziarie egiziane degli ultimi dieci giorni. Una cronaca che ha avuto per protagonisti l’ex presidente islamista Mohammed Morsi –deposto manu militari nell’estate 2013- e il suo predecessore, Hosni Mubarak- depodestato da piazza Tahrir. Due sentenze con pesi e misure differenti per cancellare un capitolo di storia scomodo e passare alla restaurazione. Se infatti l’ex faraone è stato assolto nonostante la morte di centinaia di rivoluzionari – di cui nessuno è stato ancora dichiarato responsabile – l’ex leader islamista è stato ieri condannato a morte per un’evasione compiutasi proprio nei giorni di quella rivoluzione che ha costretto Mubarak alla ritirata.
Morsi, che ha però scampato la pena capitale nel processo per spionaggio a favore del movimento islamista palestinese Hamas, è stato condannato insieme ad altri 105 imputati. L’accusa è per tutti la stessa: esser fuggiti dal carcere di Wadi Al-Natrum il 28 gennaio 2011, giorno meglio conosciuto come il venerdì della collera, quando milioni di egiziani si riversarono nelle strade per chiedere a gran voce l’uscita di scena di Mubarak. Tra i nomi dei condannati spiccano quello di Khairat al-Shater – numero due della Fratellanza Musulmana – e Mohammed Al-Baltagi, il segretario generale della Confraternita islamista – movimento che i militari hanno nuovamente confinato alla clandesitinità.
Pur con tutti i difetti, i limiti e le derive autoritarie della Fratellanza, le motivazioni politiche di queste sentenze sembrano di gran lunga superiori a quelle legali.
Questo post è un estratto dell’articolo pubblicato oggi su Il Messaggero.